Non è possibile comprendere fino in fondo, e forse non è nemmeno possibile curare, l'angoscia e la tristezza, la sofferenza e il dolore, se non sentendo e rivivendo (almeno in parte) queste emozioni dolorose come le nostre possibili emozioni.
Le parole intense e accorate di Emily Dickinson in una sua bellissima poesia ci dicono come questo non basti, e come sia necessario, una tesi che sarà poi quella di Simone Weil, avere sofferto: conoscere, cioè, personalmente la linea d'ombra della sofferenza. Cosa, certo, radicale e utopica; e nondimeno, quando ci si confronta con il destino di ogni esperienza psicotica, si ha talora la sensazione che le proprie inquietudini e le proprie insicurezze possano aiutare chi sta male, e che in ogni caso siano molto più terapeutiche delle proprie trionfali sicurezze.
La poesia di Emily Dickinson è questa*:
"Ad un cuore spezzato
nessun cuore si volga
se non quello che ha l'arduo privilegio
d'aver altrettanto sofferto"
Certo, l'esperienza della cura in un ospedale psichiatrico ha dimostrato come, al di là di ogni rigorosa strategia farmacologica, sia necessario testimoniare ad ogni paziente una umana disponibilità ad ascoltare e a dialogare anche nel contesto di mille difficoltà. Ovviamente, non solo da parte dei medici ma da parte delle infermiere, quelle che si sono profondamente trasformate nei loro incontri con le pazienti, è stata realizzata una climax psicoterapeutica che ha radicalmente contribuito a modificarne la sintomatologia: dilatandone gli orizzonti di senso e i modi concreti di vivere.
Sono cose banali e scontate ma in esse si nasconde la indispensabile cifra tematica di ogni relazione di aiuto: nella malattia e al di fuori della malattia. Ovvia constatazione, questa, e nondimeno nell'arcipelago sconfinato delle angosce e della malinconia, delle inquietudini del cuore e della disperazione, della solitudine crudele e del deserto della speranza, in ogni ospedale psichiatrico l'importanza salvifica della relazione, di una relazione che riscattasse le sofferenze del passato e aprisse una diversa dimensione del futuro, riemergeva con una intensità e una evidenza straordinarie.
(Sono osservazioni, queste, che sono venuto svolgendo in un ospedale psichiatrico femminile, certo, e avrei potuto farle, mi chiedo, se avessi invece lavorato in un ospedale psichiatrico maschile?
Nel suo ultimo libro, che è uno splendido viaggio, scandito da una cascata di bellissime poesie, nei paesaggi dell'anima di un gruppo di donne detenute nel carcere femminile di San Vittore, a Milano, Lella Ravasi muovendo da una junghiana interpretazione dei loro sogni ci accompagna lungo gli infiniti sentieri delle emozioni e della immaginazione femminili; dicendoci cose di una emblematica significazione psicologica e umana.
"Sarebbe stato possibile il lavoro analitico con i sogni in un gruppo del carcere maschile? Non so dirlo. Nè vado teorizzando alcunchè. Qualcuno potrebbe farlo, sarebbe interessante e forse utile. Io so solo che mi sono trovata nel cuore di un'esperienza quasi per caso, e ho accettato di andare al di là del già noto delle conoscenze umane e psicoanalitiche che facevano parte della mia vita"**; e ancora:
"So anche che la forza di questo lavoro sta nella realtà umana, nello spessore e nella profondità di queste donne che ho potuto incontrare, nel gruppo formato da loro stesse. E so che molte ipotesi sul femminile e sul materno, con cui per anni ho faticato nella pratica e nella riflessione psicoanalitica, qui hanno avuto nuove aperture, conferme, intuizioni, come taccuini di viaggio in una terra sconosciuta ma misteriosamente affine, immersa nella libertà, molteplicità e relatività delle esperienze in cui la vita ci conduce".
La passione, la ragione che in lei leopardianamente si trasforma in passione, è la sorgente del discorso psicoterapeutico radente e rigoroso di Lella Ravasi che, nel nel fare sgorgare dalla soggettività delle donne detenute il loro mondo interiore e le immagini dei loro sogni, ha parole leggere e profonde, ardenti e luminose, analitiche ed ermeneutiche che si intrecciano con quelle dei poeti in una misteriosa alleanza alleanza tematica e simbolica. Dal suo discorso psicoterapeutico le figure delle donne ascoltate analizzate rinascono nelle loro esperienze dolorose e nostalgiche, logorate e nondimeno palpitanti di vita, e nei loro sogni che sono la febbrile testimonianza di una condizione femminile nella quale, al di là di ogni situazione estrema (non del tutto lontana, forse, da quella di un ospedale psichiatrico), continua a vivere una creativa e struggente umanità: mai disgiunta dagli orizzonti di senso di una individuazione del proprio "essere nel mondo" (ndr) desiderata e realizzata, magari fallita ed in ogni caso anelata.
Non c'è nondimeno psicoterapia se non nel segno della speranza: "Se non diventano speranza viva, qualsiasi terapia e qualsiasi ascolto perdono senso. E' una narrazione profonda della storia quella che si fa racconto a partire dai sogni, e le parole hanno senso se risuonano; per questo l'ascolto è fondamentalmente denso di memoria e di presagi, di intuizioni e di visioni, di immagini e di suoni".
Da: Eugenio Borgna, "Come in uno specchio oscuramente", Collana Campi del sapere, Casa Editrice Feltrinelli, 2007.
- *Poesia di Emily Dickinson, Amherst, 10 dicembre 1830 – Amherst, 15 maggio 1886);
-**Tratto da "Sogni senza sbarre. Storie di donne in carcere", di Lella Ravasi Bellocchio, Casa Editrice Cortina Raffaello, 2005
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